TRE LIMONI

L’uomo uscì di casa insieme alla famiglia, una moglie e due figli piccoli, poi, con una scusa, tornò indietro e, frugando nell’armadio, prese altri contanti da un portafoglio nascosto sotto i maglioni.
Arrivato al solito bar, non quello sotto casa, uno più lontano, dove non avrebbe di sicuro incrociato amici e vicini di casa, ordinò un caffè.
Come al solito fece finta di non averle viste, ma loro tintinnavano e vibravano ed emettevano silenziosi richiami di sonar che lui captava tra le voci dei clienti, i clacson delle auto, le suonerie dei cellulari.
E così, come ogni mattina, l’uomo si girò verso quei totem lampeggianti e infantili e si disse che sarebbe stato solo un giro.
Scelse la macchinetta più appartata e, seminascosto dietro un separé di plastica con la pubblicità di coni gelato, si sedette sullo sgabello.
Tirò fuori cinquanta euro e il cellulare che appoggiò in grembo per sbirciare, di tanto in tanto i minuti che passavano e così non fare tardi al lavoro.
Inseriti i soldi in quella specie di flipper senza abilità nei polsi e movimento d’anca, tutto cominciò a ruotare, a colorarsi di giallo e blu, a saettare, ipnotizzando all’istante i buoni propositi, i sensi di colpa, le promesse.
Come ogni mattina tutto scomparve: il bancone del bar e i suoi avventori, la strada fuori dal vetro e anche gli altri giocatori, facce ormai orrendamente familiari, rinnegate sagome curve e scolorite come la sua.
Di colpo vide solo saette e stelle e il suo cervello, catturato al lazo, sperò che quella divinità arcaica che aveva preso a governare il suo mondo, fosse buona con lui oggi, così buona da allineare oggetti uguali.
“Mi sento che i limoni … ti prego, tre limoni.”
L’uomo, impiegato in un’assicurazione, pronunciò la sua preghierina silenziosa alla divinità elettrica e casuale, e premette il bottone la prima volta, dando così inizio alla medesima sequenza che prevedeva soldi, implorazione e bottone, soldi, imprecazione e bottone.
Mentre la dea, prostituta bizzosa si negava, il cellulare prese a lampeggiare; l’uomo, marito sempre più muto, padre sempre più distratto, sbirciò il testo del messaggio e si ricordò di un compleanno, di un regalo da comprare.
Alzò di nuovo la testa verso la sequenza ritmata e gli parve per un attimo di giocare col sarcofago di un vampiro e che i punti rossi che ogni tanto comparivano (una mela, una fragola) fossero gocce di sangue che si allargavano sul ghiaccio verde di quella lamiera.
D’istinto tolse il dito dal bottone, in fretta rimise il telefono in tasca e scese malamente, rumorosamente dallo sgabello.
Sbirciando gli altri fantasmi che, attaccati alla loro macchina cuore-polmone, non si scomposero e provando un forte senso di soffocamento, l’uomo caracollò fuori dal bar.
Respirò a bocca aperta come dopo una lunga apnea e si allontanò da quel bar d’angolo a passo spedito.
Dopo qualche metro si fermò, si aggiustò la cravatta e i capelli guardandosi riflesso sul vetro di un’auto.
Mai più, si disse.
Come ogni mattina.

SCHIZOFRENIA INNOCUA

Scrivo una storia, da un tre mesi ormai.
Tre mesi sono il mio valico personale, il limite temporale per capire se era solo una passione (appunti presto o tardi rinnegati) o se diventerà un amore.
È amore.
Sono quindi entrata in una di quelle bolle vitali, parallele a tutto, e ora vivo in una sorta di beata schizofrenia, una schizofrenia innocua.
Il racconto (viaggio,visione) avviene sottoterra, in una rete di catacombe di lusso:oblò per prendere aria di notte e periscopi per guardare la striscia verde e argento del mare in lontananza.
Inutile dire che mi piace il senso di soffocamento che mi procura ogni immersione e la conseguente libertà, bocca aperta a fare il pieno d’aria dopo un’apnea.
Da tre mesi annuso profumi acri e salini, scopro ferite e malattie senza nome, salgo in treni lunghissimi e vedo stelle troppo vicine.
Ci sono personaggi con cui parlo mentre guido; alcuni irrequieti e già dispotici e altri che sgusciano via, che mi nascondono qualcosa.
Da tre mesi apro due armadi diversi, parlo due lingue simultaneamente, sono tridimensionale in due dimensioni.
Esco di casa la mattina presto dopo essere già stata altrove e, febbrilmente, torno alla scrivania la sera o all’alba, per un altro giro.
E non c’è nessuno, solo io e questa fantasmagoria.

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BURT, SOFIA and I

Sofia é una città assediata dalla fretta di diventare inquinata, internazionale e arrogante.
Io la frequento senza convinzione, sbirciando gli scolari di tutte le età di una scuola serale o gli impiegati che tardano a spegnere la luce dei loro piccoli uffici. E ci cammino sopra in automobili avvezze al caos, alla pioggia nera. Appoggio la guancia al finestrino e basta un taxi che non passi disco dance balcanica, perché la mente sovrapponi tempo, spazio e tutto il resto.