dal blog di Paola Rondini

Foto

Ho quindici anni e guido il motorino senza casco. Torno dal palazzetto dove ho terminato l’allenamento di pallacanestro. Sto sognando di giocare bene domenica, di fare un tiro da tre punti che farà alzare tutti in piedi, anche mio babbo che sarà seduto sugli spalti e che magari dirà al suo vicino di posto: “eh… quando ci mette l’impegno.”
Ho quindici anni e guardo la mia migliore amica scaraventare il diario fuori della finestra della scuola. Ci provo anch’io ma poi ci ripenso all’ultimo secondo e così finisce che decine di foglietti con frasi insulse cadono giù per strada, corro a recuperarli.
Ho quindici anni e coi capelli bagnati sfreccio in bicicletta per le vie del mio quartiere, sto guardando aerei sfacciati tagliare un pezzo di stoffa celeste e chiedo al dio delle hostess di farmi avere un giorno la mia divisa, cappellino e valigia con le ruote comprese.

foto scia aereo

Finestre

Una lampada, mezza tenda, l’angolo di un armadio; vi vedo dalla strada, ma l’occhio va oltre e sorvola tappeti con peli di cane, bollette sopra la mensola, tutto nuovo, tutto vecchio, quella foto, solo quella per descrivere un’esistenza intera. Vite avvitate, accavallate, inceppate, mi sembra di sentire qualcuno che piange o ride, canticchia, grida. Le luci si spengono in ordine sparso quando arriva l’ora di rinnegare la realtà e credere alle visioni. Vedo baci frettolosi e indissolubili, é tardi. E quelli nuovi che non hanno sonno.

Paola Rondini blog - Finestre

Rita

Paola Rondini blog - RitaImmaginai che, rimasto solo, Ulivieri si sarebbe aggirato in quella stanza, ordinata e sconosciuta e, arrivato davanti al grande poster di mia madre, sarebbe stato attratto dalla visione di quello schianto. Una modella? Un’attrice?

Re dell’estate

Paola Rondini blog - Re dell'estateÈ un’estate confusa di caldo, chilometri, ragazzini in piscina, attesa, scritti addentati e lasciati alle formiche.
Attesa.
Per trovare la mia vecchia pace, mentre tutti schiamazzano, metto la musica dell’inverno, quella delle sere corte, col maglione verde, a scrivere con le mani infreddolite.
E mi incanto a osservare animaletti morti impagliati dentro teche senza aria.
Facevano paura e adesso sono re in imperiale saluto al mondo sudato da questa parte.

La sartoria

La sartoria occupava un piccolo appartamento al primo piano di un condominio nuovo, di quelli che, all’improvviso, avevano cominciato a spuntare al di là delle mura antiche della città.
Prima c’erano i campi, le case coloniche, le aie col trattore parcheggiato sotto la tettoia, e poi, di colpo, erano apparsi questi parallelepipedi, facili e alti come ragazzoni di buona famiglia cresciuti a vitamine.
Due stanze, una sala prova, un bagno e una piccola cucina per fare il caffè alle clienti; i miei pochi ricordi dell’infanzia sono chiusi là dentro.
Quel posto era pieno di oggetti unici: un baule profondissimo con ritagli e palline di naftalina, calamiti giganti, ferri da stiro come draghi, manichini nudi (androidi in fase di montaggio) o vestiti (spie nel mondo degli umani).
Avevo fatto mia la seggiolina che usavano le lavoranti per appoggiare la gamba che sostiene l’abito nei lunghi sottopunti, e lì mi sistemavo per spiare quell’universo tagliato con le forbici e imbastito su misura per piccole rivalse di provincia.
Dalla mia postazione le clienti sembravano tutte spavalde; si spogliavano senza esitazioni, restavano in mutande e reggiseno e si giravano su loro stesse per controllarsi dietro, come buttava dietro.
Mia madre riprendeva, svasava, pareggiava, srotolava il centimetro con la penna stretta in bocca, sorrideva alle pagine di Vogue, la sigaretta tra le dita.
Anni settanta, tessuti sfavillanti, striati, rettili, impalpabili, le sete, da Como, lo Studio 54 approdato anche nelle feste dei crudeli, asfittici circoli bene della città, tra le signore che andavano in crociera e ai balli di carnevale.
La donne sposate erano signore; quelle giovani, le zitelle e le amanti clandestine, signorine.
“Più corto, più stretto, più luccicante, più luccicante!” 
Il luccicante mia mamma se lo portava anche a casa la sera.
Quando entrava nella mia stanza da letto ( denti lavati? preghiere a posto? Leggere?) perdeva sempre un po’ di luccicante dalla camicetta o dai capelli.

Ersilia

Ersilia ha novant’anni e quando passo sotto casa sua, la mattina presto, per portare a spasso il cane, mi saluta dal terrazzo del terzo piano sventagliando il braccio arcuato. Di solito è intenta a sbattere tappeti, cuscini, pezzi di stoffa di lana per spolverare. Ci scambiamo brevi commenti, sempre quelli, sul tempo, sui suoi acciacchi, sul marito che è già nell’orto e sulle sue tartarughe.

L’ho incontrata solo una volta per strada e, ad altezza d’uomo, mi è sembrata più esile, una donna minuta, coi capelli portati a caschetto, come una piccola ballerina di Charleston. Ricordo che quel giorno esitava a uscire dal cancello del suo giardino, come se l’ambiente esterno non fosse il suo habitat; lei è regina in casa, tra i suoi tessuti senza un granello di polvere, nel suo terrazzo dai gerani rossi allineati al centimetro.