dal blog di Paola Rondini

Fantasmi

Li scorsi da lontano, prima che l’auto prendesse un tornante, poi, per qualche secondo, non li vidi più. Da quella distanza sembravano due scimpanzé eccitati, due marziani oscillanti e scuri che agitavano le braccia uno contro l’altra.
Eravamo in una specie di altopiano, povero di case, solo qualche luce intermittente e fiacca pulsava in lontananza.
Appena compiuta la curva, ce li trovammo davanti e Bruno ebbe un moto di esitazione, l’auto disegnò una breve esse sullo sterrato.
Rallentammo.
Erano un uomo e una donna, sulla sessantina, vestiti da sera.
Si scorgevano paillettes nere fuori della pelliccia che la donna stringeva alla vita, lui aveva una sciarpa di seta al collo.
Bruno si voltò verso di me stupito.
– Magari hanno dei problemi con l’auto. – dissi io.
Così, rallentando al minimo, ci avvicinammo ai due.
Bruno abbassò il finestrino e si sporse di lato.
– Ehi tutto bene? Avete bisogno di un passaggio? –
La donna si allontanò di qualche passo come volendosi dissociare da quella situazione.
– Salve, sì – rispose l’uomo e, lasciando una mano sul vetro, si rivolse alla donna:
– Vieni dai, torniamo su! –
Quindi girandosi di nuovo verso di noi:
– Dobbiamo arrivare a quel casolare in cima, dove ci sono le luci. Sono poche centinaia di metri. Vi dispiace? –
La donna si convinse dopo che lui la prese per un braccio; era alta e bionda e portava con estrema disinvoltura la mise lussuosa e il trucco.
Entrarono uno alla volta.
Entrò il freddo.
Di colpo c’era un affollamento di mondo dentro l’abitacolo e il nostro silenzio felice divenne solo imbarazzo.

– Perché mi hai fatto salire? Non voglio venire via con te. Fatemi scendere! – sibilò la donna, quindi cominciò a smanettare con la portiera dimostrando la volontà di saltare fuori dell’auto.
– Stai calma, stai zitta! – le intimò lui.
Bruno fece per girarsi, ma l’uomo gli mise una mano sulla spalla e gli disse che era tutto sotto controllo.
La donna continuò ad agitarsi e la complicata acconciatura laterale cominciò a cedere.
Il vestito di paillettes nere si contorse sul sedile come un grosso serpente in fase digestiva.
– Noi ci stiamo lasciando, lo vuoi capire? Noi non stiamo più insieme. Io non voglio più fingere con la tua famiglia, con tutto il tuo circo di parenti. Basta!
Il tono di voce della donna era rauco e minaccioso; una voce da mora, non da bionda, da fumatrice.
Bruno guidava guardando dritto davanti a sé.
Intorno a noi non c’era che la campagna rinascimentale colpita dalla luna.
Ad una distanza difficile da stabilire, si scorgevano le luci del casolare che i due dovevamo raggiungere.
Mi chiedevo come avessero fatto a camminare così tanto, soprattutto lei che indossava i tacchi alti.
– Non chiamare circo i miei familiari. Te l’ho detto mille volte Patrizia. Hai tutto da guadagnarci dal frequentare la mia famiglia! –
Così la donna si chiamava Patrizia.
Le stava bene quel nome.
Di sicuro Patrizia era nata alla metà degli anni cinquanta.
Non era difficile immaginarsela più scura di capelli, alta e formosa negli anni del liceo o di ragioneria e poi impettita in un ricco abito bianco di sposa, alla fine degli anni settanta.
Bruno si girò solo un attimo verso di me e sorrise come se avesse captato la solita deriva dei miei pensieri, quindi tornò concentrato sulla strada che adesso aveva cominciato a salire verso la collina.
– Senti Valerio basta. Non dovevo accettare di partecipare a questa farsa, dovevo restarmene a casa, da sola. –
– Ah sì? Ma chi ti infastidisce tanto? Io? I miei parenti? Pensi che non si siano resi conto tutti di quanto sei fuori di testa? Vuole stare da sola, senti, senti … ma dove vai senza me e la mia famiglia!–

I fari dell’auto, puntati in salita, illuminavano un bosco; l’altopiano aperto e la distesa di campi, non c’erano più.
La strada tortuosa era costretta ai lati da un fitto esercito di alberi sempreverdi, pini o abeti, che sembrava moltiplicarsi e armarsi ad ogni curva.
– Ma perché ti ostini a tenere in piedi questa cosa? Io non sono codarda come te che non mi ami più da un pezzo ma vuoi conservare le apparenze. Io mi sento soffocare, ho bisogno di aria, di andarmene … –
Bruno, in un gesto di stizza, accese lo stereo dell’auto e di colpo le note di Kid A si espansero dentro l’abitacolo.
Erano belle ma non erano più le stesse, non suonavano più come quando eravamo soli e salivamo verso la collina, erano estranee ed esangui.
E poi successe quello che non doveva succedere: l’uomo sembrò ricordarsi che, seppur stava litigando con sua moglie che voleva mollarlo, loro stavano andando a una festa, e quindi batté una pacca sulla spalla di Bruno e propose:
– Non hai qualcosa di più allegro?
Lui, Bruno, non reagì subito, infatti l’auto percorse ancora qualche decina di metri ma poi, in modo del tutto inaspettato, con una frenata brusca, fermò la macchina .
– Fuori. Fuori tutti e due – disse scandendo bene le parole e restando immobile con le mani sul volante.
Fui presa alla sprovvista da quella decisione ma l’accettai d’istinto, fiutandola come la nostra unica possibilità di salvare non solo quella serata, ma le nostre strade, le nostre vite, le idee, tutto.
Il bosco incombeva ai lati, nero, frusciante e gelido.
L’uomo tentò di riprendere in mano la situazione, e con tono che aveva ancora qualcosa di baldanzoso come conveniva alla serata, incitò:
– Che ti è preso? Dai su, portaci a casa. –
Ma Bruno, stavolta voltandosi,  ribadì ai due di uscire dalla nostra auto.
Patrizia, superata la sorpresa, sembrò tornare in contatto con la sua decisione e con la sua rabbia di lunga data, quindi aprì la portiera e scese, le paillettes tutte impazzite la seguirono agili.
– Sei contento stronzo? – urlò Valerio e, invece di uscire e rincorrere la moglie, cominciò a battere pugni ai nostri sedili.
Bruno, con la testa leggermente abbassata, pensò un paio di secondi, quindi mi disse di restare dentro e scese dall’auto.
Con un movimento deciso aprì la portiera e prese Valerio per un braccio costringendolo ad uscire.
Io non ubbidii, non potevo restare seduta in macchina mentre fuori tutto esplodeva.
I miei stivali ruppero il ghiaccio creatosi sopra una pozza d’acqua.
L’odore del bosco mi arrivò forte alle narici.
Vidi Bruno e Valerio fronteggiarsi in piedi vicino alla macchina.
Bruno stava zitto e Valerio urlava:
– Che c’è? Ti facciamo schifo? Non siamo abbastanza alienati per ascoltare la tua musica di merda? –
Bruno tirò un pugno al petto di quello sconosciuto con il quale eravamo diventati di colpo così intimi e Valerio a sua volta lo afferrò per le spalle.
Caddero entrambi a terra, non li vidi più.
Feci il giro della macchina: le luci posteriori della macchina producevano solo aloni infernali sopra i due corpi. Bruno era sotto, il suo giaccone, il cappello di lana, toccavano la strada fredda, tutto era calpestato e bagnato dall’umidità e dal gelo.
Urlai di smetterla, ma non produssi altro effetto che scorgere in lontananza Patrizia fermarsi per un attimo ed osservare anche lei la scena.
Vidi Bruno divincolarsi e malamente rimettersi in piedi.
Valerio rimase in ginocchio.
Con la testa abbassata e il cappotto cammello imbrattato di polvere, sembrava un grosso bisonte albino.
Bruno, tenendosi un polso dolorante, gli sferrò un calcio.
Prima che Valerio potesse rialzarsi e reagire, mi avvicinai:
– Andiamo via! – gli urlai.
Lui, continuando a fissare Valerio, prima oppose resistenza, poi cedette e si infilò in macchina.
Mentre stavamo per ripartire l’ombra scura di Valerio si avvicinò di nuovo ai vetri.
– Pensi di essere speciale? Pensi che a voi due non succederà? Mi fai ridere! –
E rise, fortissimo.
La risata di Valerio sembrava un ululato che le fronde degli alberi segmentavano e ingigantivano.
Bruno ingranò furiosamente la prima e partì. Nel giro di qualche secondo avevamo già compiuto la prima curva.

Non ci dicemmo nulla, ma bastò che sfiorassi la sua mano a che lui rallentò. Scuotendo la testa spense il motore e quindi scese a respirare e a sputare a terra tutta quella distanza, tutta quella paura.
Ci guardammo qualche secondo.

Li ritrovammo seduti su un sasso, lui intento a ripulirsi i pantaloni e lei a fumare.
Il vestito di paillettes ci salutò di scintille quando i fari lo colpirono di nuovo.
– Volete salire a questo cazzo di casolare o scendere in città? – chiese Bruno affacciandosi.
Patrizia guardò Valerio che, senza alzare la testa indicò col dito pollice la discesa.
Lei gli recuperò la sciarpa di seta impigliata su un rovo.
Quando entrarono di nuovo dentro l’auto guardai Valerio in faccia, aveva un livido nascente allo zigomo.

Paola Rondini blog - Fantasmi

painting – Marco Buzzini

Duemila (Bruno)

La notte di capodanno del duemila eravamo tutti blu, fosforescenti, eravamo oscillanti creature in trasformazione; il vecchio millennio, con quei numeri accavallati l’uno sull’altro ormai impossibili da pronunciare, lasciava il posto agli spazi siderali dello zero.
I fuochi sopra la Terra, come asteroidi artificiali, illuminavano a giorno il minuscolo pianeta confondendo le stelle, spettatrici indifferenti dell’insolito terremoto neuronale.
Nelle città, onde di eccitazione saettavano tra i palazzi; dagli attici spavaldi, ai vicoli impauriti. Nelle campagne, i botti illuminavano arrese torri di avvistamento e spaventavano le bestie che belavano rimpiangendo la vecchia era.
Maniche di camicia, volti rossi, sudore gelato, complicate acconciature; ci pesavano i sogni e i braccialetti.
Eserciti in paillettes e pantaloni stirati di fresco, fissavamo il conto alla rovescia più vertiginoso con fiducia: il futuro gigantesco che stava per deflagrare ci induceva a urlare e baciarci più forte, il mondo deludente che avevamo conosciuto si sarebbe frantumato e, da domani, ricomposto in modo inedito.
Duemila era dentro, era intorno, era ovunque: tipografie, parrucchieri, stazioni di servizio, lavanderie tutte nuove, tutte 2000.
Nei negozi di biancheria intima, uomini di famiglia acquistavano tanga di pizzo alle nuove amanti dell’est e quel 2000 stampigliato in strass era il sigillo verso una nuova, portentosa giovinezza.
Mamme nate negli anni cinquanta sospiravano ottimiste: i loro figli avrebbero presto indossato tute argentee e coi computer attaccati al polso, avrebbero trovato tutti i lavori del mondo, c’era spazio, tanto spazio, praterie di nuove opportunità, era il futuro.
Imprenditori controllavano i listini della borsa più che la vecchia contabilità: i prodotti, la manifattura, i calli alle mani, erano roba vecchia, del secolo precedente, ruggine, ragnatele, ralenti; adesso c’erano tutti quegli zeri, palloncini per andare più veloci.
Andiamo!

La notte di capodanno del duemila io e te, insieme, non esistevamo; dispersi nel vecchio millennio, con la pressione di tutti quei secoli che volevano chiudere bottega, alzavamo bicchieri di spumante lontani chilometri e pensieri.
Come il meno ottimista dei tubini neri, osservavo la mia faccia diluita su una vetrata mentre intorno a me centrifugava una festa.
Fumavo e mi chiedevo se la nuova era sarebbe stata brava abbastanza da sventagliare via tutta quella nebbia, così che tu mi avresti trovata, seduta e senza scarpe, in fondo al corridoio.

Duemila (Bruno) | dal blog di Paola Rondini

illustrazione – Federica Salemi (collezione “Nudes”)

Macchie

Una macchia arancione: distinguo il vento che agita la stoffa e il sudore della paura che scurisce in ampi aloni.
Parla.
Gli hanno promesso che se le parole saranno convincenti non morirà. No, non morirà, é solo una finta, un film.
A fianco una macchia nera senza volto; é più alta, più sicura, sovrasta il tempo, la comprensione, é sbucata dal nulla, é il nulla.
Dietro c’é il deserto.
E poi il rosso.

Paola Rondini blog - Macchie

Marco Baldicchi – Tablet n.11

Nuvole

L’uomo guardava le nuvole con molta pazienza; le lasciava solcare su quel pezzo di cielo convinto che anche loro facessero parte del suo destino.

Paola Rondini blog - Nuvole

foto – Stefano Giogli

Blu

Malinconia miope che ti fa schivare il bar preferito, l’amico chiacchierone, i migliori vicini del mondo, il cinema. Non é primavera, non si abbina al bianco per una tenuta giovanile; é venoso, freddo, implacabile, erotico.

É il mare che ti ospita qualche minuto poi ti sputa fuori.

Paola Rondini blog - Blu

acquarello – Marcello Volpi

Lo scrittore

Lo scrittore é colui che scrive storie.
Storie: quelle cose che hanno un inizio, uno svolgimento e una fine, coi personaggi, la trama, i colpi di scena, i segreti svelati, le descrizioni evocative.
Generalmente parte da sprinter, lo scrittore, giusto una corsetta, ma poi soccombe alla cupa necessità di aumentare e increspare le distanze, srotolando una matassa lunga, filo per una coperta d’inverno, lenza per un mare in tempesta che sfrega le mani.
Lo riconosci,lo scrittore; é quel matto che esce poco, che costruisce un teatrino in camera,che si fa regista e attore di tutti i ruoli e prende gli applausi di due spettatori, sempre quelli, in prima fila.

Mare mare

Le belle amiche fumano e parlano di diete, hanno costumi che, tutti raggruppati, fanno una giungla. La famiglia sciabatta all’unisono sull’acciottolato, ignora un gatto smunto, un gatto di mare. Sugli scogli e nelle spiaggette, occhi abbassati alle tastiere si levano ogni tanto per sorridere al telefono, veloce digitazione e invii. Bambini multicolore si tuffano dagli scogli e poi risalgono, elastici e veloci come ragnetti legati al filo della tela. Ridono e rabbrividiscono; sembrano gli unici a trovare ancora divertente questo mare vecchio e resistente.

Slotface

Nel bar sotto casa, seminascosto dietro la porta, c’è quel tizio elegante che, come ogni mattina prima di andare al lavoro, inserisce cinquanta euro in una specie di flipper autogestito, sperando che un dio invaghito di fortuna allinei per lui oggetti appartenenti allo stesso sottosistema. L’impiegato modello, il manager blu, il marito muto, non guarda nessuno, non ordina niente. Con la coda dell’occhio odia il mondo da questa parte, si vergogna delle sue scarpe sempre più impolverate, chiede scusa.

Estremismi

Mi guardo intorno e vedo oggetti che ormai conosco bene, vengo qui tutti i giorni, più volte al giorno: quattro panchine messe a semicerchio, un poster incorniciato e un distributore automatico di caffè.
Il pomeriggio volge verso la sera in un passaggio morbosamente lungo e delicato.
Chiudo gli occhi e appoggio la testa al muro, tanto nella stanza non c’è nessuno; nessuno sconosciuto con cui condividere un’ansia senza dettagli, nessuno a cui dare informazioni sugli orari delle visite. Solo io e la puzza dei disinfettanti.
Aspetto.
Penso al sangue sulla neve, a come si espande, a come la scioglie.
É difficile tenere ferma la mente.
La maglietta di cotone che indosso si é leggermente attaccata alla sedia di finta pelle.
L’infermiera si affaccia alla porta come il guardiano sospettoso di un locale di estremisti; non sorride, ma dice buonasera.
Sotto il suo sguardo obliquo, varco il confine tra il mondo verticale dei sani, dei soldi, delle corse, dei muscoli e dei pensieri e approdo in un villaggio orizzontale di pigiami e di ossessioni.
Porto con me un pesante carico di ottimismo.

Zorro

foto fratelloInvecchi tra gli acciacchi dell’umore e procedi nella giungla come un bradipo ostinato.
Resti lo sciatore nel corridoio di casa quando la mamma aveva dato la cera, Zorro e sioux, ti ritrovo, fratello, ogni volta che incrocio una cosa buona.