Lo scompartimento del treno era diluito nella penombra e odorava di gente che dorme.
Aveva deciso di prendere quell’intercity notturno invece dell’aereo perché voleva avere tutto il tempo per pensare e l’occasione di fumarsi una sigaretta ogni tanto, durante le soste. E poi viaggiare in treno gli era sempre piaciuto, gli ricordava quando era uno studente fuori sede, con la borsa a tracollo e un carico di progetti provvisori. Il buio era amico, rendeva sopportabile la stanchezza, cinematografico il sudicio e trasformava il treno in un mezzo surreale, onirico. Lui se lo figurava sempre come un serpente di ferro che procedeva cocciuto verso la sua tana chissà dove.
Ogni tanto l’uomo camminava lungo i corridoi, oppure accendeva una piccola pila tascabile tentando di leggere mentre gli altri sonnecchiavano per sfinimento. A volte si vedeva riflesso sul vetro del finestrino e scorgeva un’espressione smarrita.
E adesso? si chiedeva. Che succederà adesso?
Si sentiva vuoto: vuoto come leggero e vuoto come privo.
Lo scorrere della vita, si diceva, è segnato dal continuo scambio di potenza tra infelicità, mediocrità, vaghezza e l’esatto opposto. Non si può stanziare troppo nella prima condizione altrimenti la macchina si spegne, ma nemmeno troppo nella seconda, perché se no la macchina si ingolfa. Così ognuno si inventa le proprie modificazioni di stato per restare in pista.
Aveva lasciato la sua donna quello stesso pomeriggio.
Dopo averla sistematicamente amata e tradita, protetta e ingannata, dopo sei anni di vita insieme, l’aveva infine abbandonata e, nell’esatto istante in cui aveva pronunciato la frase allora forse è meglio lasciarsi, sensi di colpa e adrenalina si erano azzerati all’unisono e lui era entrato in una bolla di nulla, assenza, sospensione. Il vuoto che sentiva dentro era anche un alone che lo circondava tutto, ovattandogli il contatto con il resto del mondo, cose e persone.
Quella mattina, ma sembrava essere passato molto più tempo, le aveva inviato un messaggio “Ci vediamo al solito posto. Devo parlarti”.
Lei era arrivata in ritardo, il suo capo aveva bisogno di altri dati.
Scusa, è molto che aspetti? aveva chiesto trafelata.
Era bella come al solito, forse più del solito.
La donna non lo sapeva, perché lui non glielo diceva, ma quando aveva il trucco sfumato, la bocca con il rossetto mangiato e i vestiti un po’ sgualciti per via delle posture della scrivania, era ancora più desiderabile.
Un ciuffo dei suoi capelli neri sulla fronte e l’odore del suo corpo, gli innescarono subito una carrellata di pensieri sessuali. Ma lui li mandò via, i pensieri, e si preparò a parlare.
Il treno avrebbe fatto tre fermate prima di giungere a destinazione. L’uomo avrebbe fumato tre sigarette, sul marciapiede.
La sua meta era casa, il posto dove era nato e dove tornava ogni qualvolta si sentiva confuso.
Casa non era più un luogo connotato geograficamente e non era di certo un richiamo di nostalgia. Si trattava piuttosto di un territorio dell’anima, un posto dove tutto contribuiva allo scopo: ritrovare delle cose di sé.
Lui arrivava a casa, posava la valigia all’ingresso e, come un cantante rock in balìa dei fans, si lasciava fare abbandonando corpo e mente allo shamanesimo familiare: i baci di mamma e zia, la pacca sulla spalla di papà, il piatto preferito, i quando ti sposi?, il letto pulito.
Quando arrivò all’appuntamento la donna aveva un sorriso nervoso.
Che corsa che ho fatto, scusa il ritardo. Hai ordinato?
E così aveva cominciato a parlare a raffica.
Lo faceva a volte, quando era nervosa. L’uomo ascoltava e annuiva. Aveva ordinato anche per lei.
La guardava e si chiedeva come fosse possibile che la donna con cui viveva da sei anni fosse così ignara del precipizio che l’attendeva quella mattina.
Provava rabbia e pena per lei in quel momento.
Non hai voluto vedere, avrebbe voluto dirle, non ci credo che tu non abbia mai sospettato i miei tradimenti, che tu non abbia mai subodorato le mie fughe. Non ci credo. E’ che non hai voluto vedere, sei stata vigliacca. Con te stessa e con me.
Poi però la guardava meglio e gli sembrava davvero ignara e sincera, concentrata e ottusa come le donne innamorate.
A quel punto si sentiva male e, di sé, aveva un’immagine patetica: un diavolo in versione taroccata col mal di stomaco.
Il treno aveva rallentato, lo faceva sempre in quel tratto.
Anche quando l’uomo, fresco di laurea, tornava dai primi concorsi, in quel punto preciso il mezzo decelerava bruscamente, costringendo lo sguardo a perdersi in un paesaggio dubbioso. Quella notte scorse una steppa lunare attraversata da ombre e fantasmi. L’osservò rapito e per un attimo cercò di ritrovarvi una traccia di sé, un resto qualsiasi delle belle idee che aveva febbrilmente inseguito.
In passato l’uomo si era spesso rammaricato di aver perso, con gli anni, la purezza giovanile. Ultimamente invece si era convinto che essa gli si fosse talmente tanto ingigantita dentro, da averlo fagocitato, rendendolo, per molti versi, un eterno bambino, un alieno goffo e bisognoso d’ affetto.
Le ombre aumentarono e lo sguardo si perse.
Riflesso in mezzo a quel tenebroso nulla l’uomo rivide il traffico, le sedie di metallo, il cameriere di quel bar di città il cui proprietario lo chiamava per nome, come al paese.
Allora forse è meglio lasciarsi le aveva detto ostentando serenità.
La sua donna, già ex da due secondi esatti, lo aveva guardato con un’espressione stupita.
A pensarci bene in quel momento gli aveva regalato uno sguardo bellissimo, malinconico e statico, come se la notizia le si fosse attaccata addosso, collosa e botulinica.
Si era quindi limitata ad abbassare gli occhi e a chiudersi la giacca.
Un bottone come una chiave, come un fazzoletto bianco.
La sagoma del suo seno si era improvvisamente ritirata dalla vista dell’uomo e così anche l’intimità, la conoscenza, tutto.
Non aveva fatto scenate, non era da lei.
Gli aveva solo chiesto, con tono quasi materno, ma pesantemente indagatore, maturo, definitivo: sei sicuro?
L’uomo, che aveva visto troppi film, si era immaginato legato ad sedia mentre un dentista nazista continuava a chiedere: sei sicuro? Sei sicuro?
Sì lo sono! avrebbe urlato al boia.
Ma per stanchezza, per fatica, per la voglia di rinascere, avrebbe poi aggiunto, sfinito
Quando il treno riprese velocità anche i pensieri si sveltirono.
La sigaretta delle tre di notte aveva un sapore amarissimo.
La stazione dove il treno si era fermato era avvolta in una nebbia sinistra.
Nessuno gli fece compagnia nel vizio.
Tornato dentro, l’uomo si attardò vicino alla porta del suo scompartimento. Una ragazza gli passò vicino, vicino e gli sorrise, come per scusarsi di rovinare quella sua intimità dondolante. Lui rispose al sorriso.
La prima volta che l’uomo aveva tradito la sua donna lo aveva fatto perché era inevitabile, facile, lusinghiero. I sensi di colpa e l’adrenalina erano entrati bersaglieri nella sua testa. La seconda e quella successiva lo aveva fatto per gli stessi identici motivi. La verità è che si innamorava sempre un po’, ci credeva, voleva crederci, perché annaspare sopra carne nuova non è un’esperienza liberatoria, si diceva, ma sapersi completamente dentro una donna sì, molto.
E così l’aveva sempre tradita con la speranza di sfondare in un’altra dimensione, di ritrovarsi magicamente nella pagina delle soluzioni, con i suoi sogni decodificati da qualcuno più bravo di lui.
Aveva tradito malamente, in modo ascientifico, caracollando in scuse improponibili, eppure la sua donna non se n’era accorta o aveva fatto finta di non vedere.
Forse si era comportata come uno stratega ottocentesco, un samurai prudente, come una regina d’oriente che conosce le regole del campo di battaglia, gli scontri sacrificabili e la grande guerra, da vincere.
E anche in questo risiedeva la sua evoluta modernità, la sua svelta superiorità di razza e quella era l’ennesima lezione per lui.
O forse tutto era più semplice e molto più doloroso: lei era una donna che amava ed era impaurita e quella finta distrazione, quella dolce vigliaccheria, non era altro che la sua armatura, lo scudo per difendersi dal male che lui le causava.
Dentro le viscere del serpente di ferro, l’uomo rivide ogni fotogramma di quel momento: il traffico, le sedie di metallo, la giacca sgualcita, le parole a raffica di lei.
Poi il silenzio e quel gesto murena di allacciarsi il bottone e nascondersi, e in un attimo avviare un meccanismo di spurgo da tutto quello che era insieme, un processo di cancellazione, pixel dopo pixel, non solo della storia, ma anche di una parte di sé stessi.
Lui non aveva detto le belle parole importanti che aveva pensato e ripensato, quelle che potevano essere la chiosa degna di una storia così importante.
Aveva pronunciato una frase scarna, primitiva, degna di uno studente delle medie in gita, allora forse è meglio lasciarsi.
E lei, dopo essersi accertata che lui era sicuro, sei sicuro?, aveva detto qualcosa, parole bisbigliate ma decise a restare per sempre: Ti auguro il meglio. E lo auguro anche a me.
Poi si era alzata e se n’era andata.
L’uomo la rivedeva ancora camminare velocemente in mezzo al traffico e, dopo qualche decina di metri, fermarsi di colpo e aprire la borsa. Le macchine intorno brontolavano, i motorini scalpitavano, la città ansimava e lei, imprudente, si fermava in mezzo alla strada per frugare dentro la borsa.
Poi passò un tram e lui non la vide più.
Con gli occhi chiusi, l’uomo entrò dentro la sua testa e scostò il tram con un dito: vide lei che tirava fuori dalla borsa un fazzoletto di carta tutto rovinato e lì lasciava le sue lacrime, le ultime dedicate a lui.
Il treno, era ormai l’alba, entrò in stazione.
L’uomo si affacciò al finestrino.
Vide i marciapiedi conosciuti, le pensiline e, dietro l’edificio basso della stazione, le colline dolci, i paesi medievali con le loro torri diroccate.
Respirò e pensò quello che pensava sempre quando arrivava a casa, cioè che non voleva essere lì, che aveva fatto bene ad andarsene tanti anni prima, che anche quello, come altri luoghi, non era il suo, non era per lui.
Che doveva ancora cercare.
C’era suo padre ad attenderlo, la vecchia mano energica sventagliava verso il finestrino.
L’uomo chiuse di nuovo gli occhi e mise i pugni chiusi dentro le tasche dei jeans.
Lei che si ferma di scatto in mezzo al traffico e fruga in borsa.
Le sue lacrime.
Nessuna parola.
Il meglio per te.
Il meglio per me.
Come nel lento passaggio da un zoom a un piano americano, le sedie di metallo e il bar si erano allontanati, diventando uno fondale sfocato.
La donna aveva fatto solo una ventina di passi uscendo dal cerchio magnetico di quell’addio, quando il cellulare mandò un segnale acustico.
Si fermò di colpo, aprì la borsetta e, con gli occhi velati da una leggera emozione lesse il messaggio: Allora amore gliel’hai detto? Come l’ha presa?