dal blog di Paola Rondini

RACCONTO QUINDI SONO, UMANO

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Da piccola ascoltavo mia nonna Isolina nella sua epica di campagna, coi raccolti andati bene, quelli baciati da dio, e quelli maledetti dalla grandine, ed erano, di volta in volta, favole col premio di un ballo di fine estate nell’aia illuminata a festa, o horror col cattivo padrone che si staglia nero e arcigno sulla soglia della porta.
E le parole, nel dialetto composto e delicato di mia nonna, erano un’antica e potente tecnologia di realtà virtuale, capace di innescare una sequenza perfetta di immagini, e capitoli di una storia che poteva, doveva continuare.
Una storia che parte da lontano: un gruppo di primitivi, mal illuminati dalla luce di un fuoco o sotto l’alone lattiginoso della Luna, mugugnano terribili e ingigantiti resoconti di caccia, quelli che, da che mondo è mondo, fanno addormentare i bambini.
E, da quel momento, noi umani, in forme sempre più attente e desiderose di durare, non abbiamo più smesso, di raccontare.
Perché raccontare é una delle più peculiari caratteristiche dell’essere umano. Raccontare, oltre che creare empatia e generare immedesimazione, pone la nostra mente di fronte a situazioni inedite, soluzioni e simulazioni sui grandi dilemmi della vita.
Quando raccontiamo facciamo pratica, come dice bene J.Gottschall nel suo bel testo “L’istinto di narrare”, con le sfide che verranno, esterne, le più disparate, o interiori, d’anima, sfide che sono sempre state le più cruciali per il nostro successo come specie.
Negli anni in cui ci si interroga se scrivere e pubblicare un romanzo abbia ancora senso, ora che tutto sembra generato solo da immagini fulminee e piatte, che spesso sentenziano, scioccano, ma non raccontano quello che c’è stato prima, o immaginano ciò sarà dopo, la risposta potrebbe invece essere molto ottimista, laddove si dia credito alla funzione del romanzo come visione periscopica, come detonazione di fantasia, generatrice di nuove visioni e nuovi pensieri
Ecco perché raccontare storie non può morire e non importa come si evolverà, il raccontare, attraverso quali strumenti, dentro quali nuovi canali espressivi; l’uomo, per rimanere tale, avrà sempre bisogno di intrecci tra ricordi e visioni, di costruzioni di vicende, di creazioni di altri uomini.
Per ritrovare noi stessi, in giorni di cupo cine reportage che alza la posta della nostra assuefazione alle immagini, basterà quindi, forse, perdersi di nuovo dentro le parole di un romanzo, e lasciare che siano loro, le parole, cercate, analizzate, ponderate, inventate, a creare nuove connessioni neurali grazie alla potenza sempre allerta della nostra immaginazione di lettori.

TRE LIMONI

L’uomo uscì di casa insieme alla famiglia, una moglie e due figli piccoli, poi, con una scusa, tornò indietro e, frugando nell’armadio, prese altri contanti da un portafoglio nascosto sotto i maglioni.
Arrivato al solito bar, non quello sotto casa, uno più lontano, dove non avrebbe di sicuro incrociato amici e vicini di casa, ordinò un caffè.
Come al solito fece finta di non averle viste, ma loro tintinnavano e vibravano ed emettevano silenziosi richiami di sonar che lui captava tra le voci dei clienti, i clacson delle auto, le suonerie dei cellulari.
E così, come ogni mattina, l’uomo si girò verso quei totem lampeggianti e infantili e si disse che sarebbe stato solo un giro.
Scelse la macchinetta più appartata e, seminascosto dietro un separé di plastica con la pubblicità di coni gelato, si sedette sullo sgabello.
Tirò fuori cinquanta euro e il cellulare che appoggiò in grembo per sbirciare, di tanto in tanto i minuti che passavano e così non fare tardi al lavoro.
Inseriti i soldi in quella specie di flipper senza abilità nei polsi e movimento d’anca, tutto cominciò a ruotare, a colorarsi di giallo e blu, a saettare, ipnotizzando all’istante i buoni propositi, i sensi di colpa, le promesse.
Come ogni mattina tutto scomparve: il bancone del bar e i suoi avventori, la strada fuori dal vetro e anche gli altri giocatori, facce ormai orrendamente familiari, rinnegate sagome curve e scolorite come la sua.
Di colpo vide solo saette e stelle e il suo cervello, catturato al lazo, sperò che quella divinità arcaica che aveva preso a governare il suo mondo, fosse buona con lui oggi, così buona da allineare oggetti uguali.
“Mi sento che i limoni … ti prego, tre limoni.”
L’uomo, impiegato in un’assicurazione, pronunciò la sua preghierina silenziosa alla divinità elettrica e casuale, e premette il bottone la prima volta, dando così inizio alla medesima sequenza che prevedeva soldi, implorazione e bottone, soldi, imprecazione e bottone.
Mentre la dea, prostituta bizzosa si negava, il cellulare prese a lampeggiare; l’uomo, marito sempre più muto, padre sempre più distratto, sbirciò il testo del messaggio e si ricordò di un compleanno, di un regalo da comprare.
Alzò di nuovo la testa verso la sequenza ritmata e gli parve per un attimo di giocare col sarcofago di un vampiro e che i punti rossi che ogni tanto comparivano (una mela, una fragola) fossero gocce di sangue che si allargavano sul ghiaccio verde di quella lamiera.
D’istinto tolse il dito dal bottone, in fretta rimise il telefono in tasca e scese malamente, rumorosamente dallo sgabello.
Sbirciando gli altri fantasmi che, attaccati alla loro macchina cuore-polmone, non si scomposero e provando un forte senso di soffocamento, l’uomo caracollò fuori dal bar.
Respirò a bocca aperta come dopo una lunga apnea e si allontanò da quel bar d’angolo a passo spedito.
Dopo qualche metro si fermò, si aggiustò la cravatta e i capelli guardandosi riflesso sul vetro di un’auto.
Mai più, si disse.
Come ogni mattina.

LE COSE SCHIFOSE

Paola Rondini - home imageIo e lei usciamo dì martedì e andiamo in una pizzeria dai menú plastificati, dalle tovagliette di carta e dalle feste di compleanno dei ragazzi delle medie, col tavolo dei genitori poco distante.
Andiamo a mangiare lecoseschifose e queste ci aspettano puntuali e immutabili: patatine rotonde intrise d’olio, una pizza col gorgonzola, un gelato rosa con la panna montata, vino e una sigaretta di nascosto insieme a qualche liceale.
Nell’ora in cui mangiamo lecoseschifose, mia mamma si dimentica di quella marea melmosa che, da qualche tempo, la sta accerchiando, che vuole farla cedere, che le rovina l’umore.
Tutto questo rallentare, rinunciare, accontentarsi, la vecchiaia, é una brutta storia, mi dice stizzita, una fregatura, ed ecco perché farsi due rampe di scale per raggiungere il nostro posto del martedì, in mezzo agli schiamazzi, ai baci dietro le colonne, al cibo che fa ridere, non è una fatica.
E quando, alla fine del gelato, con due baffi bianchi di panna sopra le labbra mi dice che si sente proprio bene, io sono grata alle coseschifose e agli spacciatori che ce le vendono.

SCHIZOFRENIA INNOCUA

Scrivo una storia, da un tre mesi ormai.
Tre mesi sono il mio valico personale, il limite temporale per capire se era solo una passione (appunti presto o tardi rinnegati) o se diventerà un amore.
È amore.
Sono quindi entrata in una di quelle bolle vitali, parallele a tutto, e ora vivo in una sorta di beata schizofrenia, una schizofrenia innocua.
Il racconto (viaggio,visione) avviene sottoterra, in una rete di catacombe di lusso:oblò per prendere aria di notte e periscopi per guardare la striscia verde e argento del mare in lontananza.
Inutile dire che mi piace il senso di soffocamento che mi procura ogni immersione e la conseguente libertà, bocca aperta a fare il pieno d’aria dopo un’apnea.
Da tre mesi annuso profumi acri e salini, scopro ferite e malattie senza nome, salgo in treni lunghissimi e vedo stelle troppo vicine.
Ci sono personaggi con cui parlo mentre guido; alcuni irrequieti e già dispotici e altri che sgusciano via, che mi nascondono qualcosa.
Da tre mesi apro due armadi diversi, parlo due lingue simultaneamente, sono tridimensionale in due dimensioni.
Esco di casa la mattina presto dopo essere già stata altrove e, febbrilmente, torno alla scrivania la sera o all’alba, per un altro giro.
E non c’è nessuno, solo io e questa fantasmagoria.

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BURT, SOFIA and I

Sofia é una città assediata dalla fretta di diventare inquinata, internazionale e arrogante.
Io la frequento senza convinzione, sbirciando gli scolari di tutte le età di una scuola serale o gli impiegati che tardano a spegnere la luce dei loro piccoli uffici. E ci cammino sopra in automobili avvezze al caos, alla pioggia nera. Appoggio la guancia al finestrino e basta un taxi che non passi disco dance balcanica, perché la mente sovrapponi tempo, spazio e tutto il resto.

26 DICEMBRE

26 DICEMBRE
Il cane Dora ha ancora un fiocco regalo con una pallina legati al collo. É uscita col padrone Ernesto stamattina perché la signora Ida fa la chemio. Ernesto mi dice sta andando tutto bene e urla il nome della moglie per far scodinzolare la sgraziata, grassa Dora. Io dico che ne sono certa e ricomincio a camminare. Mi fermo al semaforo e osservo un’auto di grossa cilindrata molto pulita che si ferma per il rosso: nel sedile del passeggero una donna dal viso irritato che indossa una pelliccia di visone e un foulard di seta, apre il finestrino e si lamenta per il caldo innaturale. Per fortuna, dice, nella borsa ha un ventaglio. Cammino guardando gli alberi e le scarpe e arrivo fino a una strada sterrata che costeggia il cimitero (mi piacciono i cipressi). Non c’è nessuno eccetto una sagoma indistinta che emerge lentamente da un residuo di nebbia: è un uomo vestito con un capotto attillato blu, una sciarpa bianca. Sta attento a non impolverare le scarpe. Mi fa un cenno di saluto alzando il pandoro che porta con sé. Annuso un dopobarba ottimista. Quando torno in casa seguo con attenzione i consigli per non sprecare nulla degli avanzi della festa. Nulla. Tutto si può risaltare in padella, anche questo senso di gigantesca, coreografica corsa sul posto.

NEL MENTRE

Mentre il mondo di superficie esplode e ci zittisce davanti agli schermi, i nostri piccoli piccoli mondi vanno avanti: il cane del vicino chiuso nel recinto lussuoso che piange di solitudine, l’amica innamorata tutta aggettivi, il Natale che, meno luminoso del solito,arriva, fiacco.
In questo brulicante sottobosco di esistenze normali, sono in ospedale con mia mamma per una cura agli occhi.
Lei e un piccolo esercito di ottantenni aspettano l’iniezione per arginare una subdola maculopatia e, nell’attesa, chiudendo quello malato e aguzzando quello buono, si fissano per (intra)vedere chi é messo peggio, chi ne sa di più, chi conosce qualcuno al reparto.
É bella, é disperatamente bella la forza con la quale raddrizzano la schiena sulle sedie scomode e dosano l’energia e resistono, é formidabile la finta gentilezza da vecchini buoni con cui sorridono agli infermieri che li trattano come bambini, dando a tutti del tu.
“Vieni Mirella!” incita l’assistente tarchiata con i capelli di tutti i colori.
Lei, Mirella, la mia mamma, indossando il copri scarpa celeste al posto della cuffia verde si alza di scatto e, come un pirata ubriaco risponde:”Pronta!”.

SALTARE IN ARIA

La grande differenza, l’abisso è tra uccidere e farsi saltare in aria.
Uccidere è rabbia, follia, disperazione. Uccidere ha volti, espressioni, parole; si impugna un’arma e si mette in atto la convinzione di essere nel giusto, di potersi vendicare di un torto, dell’essere stati calpestati, di difendersi e di farlo attaccando, perché maltrattati e traditi, per ritorsione, rappresaglia, per genitori trucidati o figli dispersi, per patrie invase, città violentate.
La storia dell’uomo è lastricata di violenza verso l’altro, verso gli altri,l’ambiente, la natura; distruggere fa purtroppo (ancora) parte della nostra vicenda tanto quanto costruire, creare e amare.
Si imbraccia un fucile e si uccide il nemico che vuole eliminarci o la sua famiglia per farlo soffrire di più: l’innocente di un villaggio medievale, di un quartiere vietnamita, di un treno a Londra, di un bar a Parigi.
In tutti questi mille modi di uccidere c’è sempre, tuttavia, la spinta alla sopravvivenza, a fuggire poi via e dirsi salvo, scampato, ancora tra i vivi dopo tanto sangue ritenuto necessario, e magari festeggiare con la propria tribù perché la morte dell’altro ha il macabro significato di esistere.
Esistere, sopravvivere.
Nel farsi saltare in aria il DNA dell’uomo che spinge alla sopravvivenza è avvelenato e polverizzato e non si tratta propriamente di un suicidio, l’atto esistenziale intimamente più estremo, ma di una irreversibile perdita di sé stessi.
Chi si fa volontariamente saltare in aria non è più un uomo o una donna senza cuore o senza cervello, ma un essere vivente senza DNA, privato di un elemento cruciale di ogni animale: la propria conservazione.
Eccole le macchine che camminano calme in mezzo alle grida, le braccia che reggono salde due armi letali, il dito che spara senza tremare, l’occhio fermo, lucido, come una telecamera che inquadra e non sbaglia.
Eccolo il piccolo esercito terribile di esseri senza paura perché senza più vita, già saltati in aria ancor prima di partire in missione.
Credo che il compito, da domani e per molto tempo, sarà quello di capire come si fa a distruggere un elemento primordiale del nostro codice genetico come la voglia di vivere.

BUCAREST

A novembre il cielo di Bucarest si anima del volo di corvi tozzi e fuligginosi.
Aleggiano pesanti tra le gru, tra i fumi dei palazzi, si accapigliano per il ramo di un albero spelacchiato, poi, di colpo, mollano l’instabile dimora per seguire il leader in una scorribanda a Est.
Lo smog, le strade dissestate e quelle eleganti, il traffico, il lago Herastrau, la gente pallida e sorridente, nessuno ci fa caso.
Solo i cani randagi alzano gli occhi acquosi e, coi nasi di gomma, annusano l’aria mossa da quelle danze sgraziate.
Poi tornano a sonnecchiare nei giardinetti.

WATSON

Paola Rondini - home imageC’è un uomo che cammina con un passo talmente cadenzato, rasoterra e indifferente da sembrare un replicante inarrestabile. Tiene la testa leggermente spostata in avanti, il mento proteso come certi fumatori incalliti (forse lo è o lo è stato), indossa un berretto blu di lana da marinaio. Se incroci i suoi occhi, e non è facile visto che guarda fisso davanti a sé, li scopri grandi e acquosi. Non sorride, non saluta, anzi pare non vedere intorno, tanto è preso dal macinare, con quell’andatura scivolosa, una sua linea retta sospesa nel nulla, proveniente dal nulla e forse nel nulla inabissante. Perennemente nei suoi paraggi, qualche volta davanti, a volte dietro o in un perimetro laterale di una decina di passi, c’è un minuscolo cane marrone; il pelo raso sul corpo tozzo, la coda a ricciolo, le zampe di una razza più scura, rivelano la sua natura meticcia. Per niente impaurito dal mondo gigantesco che lo circonda, il cagnolino, muso a terra, orecchie ricettive, scatti fulminei, esplora, ispeziona. Piccolo Watson per uno Sherlock depresso, sembra incamerare dati quotidiani e rilevanti sulla strada, il quartiere, la gente in un corredo di informazioni da riportare a quel suo mesto capitano, gravato da pensieri lontanissimi o ricordi ossessivi, intento solo a mantenere la sua rotta indomita.
Stamattina c’era la nebbia.
La sagoma dell’uomo era poco più di un’ombra che entrava e usciva dalla bambagia filamentosa ma lui, Watson, si vedeva bene, indossava un cappotto rosso.